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Festa del Cinema di Roma 2021, Day 8 – Day 11

Giornate conclusive alla Festa del Cinema di Roma 2021, caratterizzate dalla presentazione di Eternals, l’ultima produzione Marvel, e dal Premio alla Carriera per Tim Burton, nonché dalla consegna degli altri riconoscimenti: il Premio BNL, quello del Pubblico e quelli per la sezione parallela, rivolta ai più giovani, Alice nella città.

Il Premio BNL, main partner dell’evento, è stato vinto dall’Arminuta di Giuseppe Bonito, storia di affido, povertà ed emancipazione attraverso lo studio; mentre il pubblico ha incoronato Mediterráneo, il film su Open Arms di Marcel Barrena. Entrambe le pellicole le trovate recensite qui.

Il Miglior Film della sezione Alice nella città è, invece, andato al delicato Petite Maman di Céline Sciamma, del quale abbiamo scritto nel nostro secondo resoconto. Il Premio per la Miglior Regia, sempre per Alice nella città, è stato assegnato a Kenneth Branagh per il toccante Belfast, di cui parliamo approfonditamente più avanti.

angelina jolie e le figlie sul red carpet
Angelina Jolie e le figlie sul red carpet per la presentazione di Eternals

Parata di stelle per la première europea di Eternals, spin-off degli Avengers, film di supereroi all’insegna della diversità, con il primo supereroe pakistano, una supereroina non udente e una dea della guerra che soffre di disturbi mentali. La regista Premio Oscar Chloé Zhao e il cast composto da Angelina Jolie, Kit Harington, Richard Madden e Gemma Chan ha calcato il red carpet della Festa del Cinema, circondato dal pubblico e dai giornalisti nell’ultima giornata della rassegna. In particolare, Angelina Jolie ha illuminato l’Auditorium Parco della Musica con il suo lungo vestito argentato, il sorriso smagliante e l’estrema disponibilità con i fan.

Il Premio a Tim Burton alla Festa del Cinema di Roma 2021

Una moltitudine di fan ha accolto anche il re del gotico Tim Burton sabato 23, cui è stato consegnato il Premio alla Carriera dagli scenografi premi Oscar Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo e dalla costumista Gabriella Pescucci.
Tra gli spezzoni di alcuni dei suoi film più celebri, il regista ha risposto a diverse domande nel corso dell’incontro ravvicinato in Sala Sinopoli.

Burton ha citato come suo riferimento artistico Mario Bava e, alla domanda sul perché proprio il suo cinema, ha risposto: «Negli anni ’80 a Los Angeles andai ad un festival di film horror che durava 48 ore di fila. Di solito a questi eventi finisci per assopirti, invece io mi ricordo chiaramente il film di Bava, “La maschera del demonio” (Black Sunday). Sono pochi i registi che riescono a catturare questo stato onirico, metto insieme a lui anche Dario Argento e Federico Fellini».

tim burton con il suo cane alla festa del cinema di roma
Tim Burton posa per i fotografi insieme al suo cane Levi

Del regista e produttore colpisce la grande umiltà: «I miei disegni sono piuttosto primitivi» ha rivelato, «sono gli altri artisti ad essere una grande fonte di ispirazione per me». «Ho avuto la fortuna di lavorare con grandi artisti nel corso della mia carriera e per me la musica e i costumi sono parte di un film al pari dei personaggi».
«Non mi reputo uno scrittore o uno sceneggiatore, però ho delle idee, e mi affido a chi le sa sviluppare». «Il cinema è un’opera collettiva che vede tantissime figure che collaborano insieme, al contrario di un quadro, a cui lavori da solo, ed è una gioia per questo».

Largo spazio anche all’autoironia; ricordando i suoi esordi alla Disney, ad esempio, ha detto: «Ero un animatore davvero terribile, il che è una fortuna, perché poi sono passato a fare altro»; e parlando del suo lavoro agli studios: «Io ho sempre lavorato con degli studios, ma stranamente mi hanno sempre lasciato fare quello che volevo; ripensandoci, però, forse è solo perché non capivano veramente quello che stavo facendo!».

locandina di edward mani di forbice di tim burton

Non ha avuto timore a mostrarsi neanche nelle sue vulnerabilità: «Le proiezioni di prova con il pubblico sono sempre fonte di grande terrore per me […], io sono sempre terrorizzato nel rivederli i miei film».
Riguardo al personaggio di Edward, mani di forbice pare che ci sia dell’autobiografico nell’idea di una persona che quando ama, ferisce e taglia («Io da giovane mi sentivo così») ed è vero che l’ispirazione per Mars Attacks gli è venuta dalla carta che avvolgeva delle gomme da masticare («Ho avuto un’infanzia strana»), mentre il musical Sweeney Todd è uno dei film che si è divertito di più a girare.

Continuando a parlare di film, è tempo di dire quelli che sono stati i titoli clue di queste giornate conclusive, due dei quali sono i nostri preferiti dell’intera manifestazione.

Terrorizers, di Ho Wi-ding

Roberta: Film corale tawainese, che come il precedente Terrorizers del 1986 di Edward Yang, ruota intorno ad un atto di violenza commesso in pubblico. Non si tratta di un vero e proprio remake, quanto, piuttosto, di un sequel, dato che i personaggi sono diversi, così come l’epoca e le vicende raccontate, ma la vera protagonista resta la stessa: la città di Taipei con le sue ossessioni. A rimanere invariato anche il tema portante della pellicola: la crisi esistenziale ed emotiva delle anime coinvolte, vittime di se stesse prima che delle circostanze. Le vite di Yu Fang, figlia di un politico, del giovane cuoco Xiao Zhang, dell’aspirante attrice Monica, della cosplayer liceale Kiki, del viziato e disturbato Ming Ling e della solitaria massaggiatrice Lady Siaoh si scontrano e si intrecciano indissolubilmente in questo dramma cupo, anche nei colori. Soprattutto questi ultimi, insieme alla ripetizione costante dei medesimi accadimenti, sviscerati dai diversi punti di vista, contribuiscono a dare alla pellicola un’atmosfera di apatica staticità, accresciuta dalla recitazione non enfatica degli attori, che, però, non permette allo spettatore occidentale di entrare completamente in sintonia con i protagonisti. Ciò nonostante, il film risulta comunque disturbante per il carattere iterativo, l’abile uso del sonoro e l’esplicitamento progressivo del disturbo mentale. ★★★☆☆

Riccardo: Dramma corale che si snocciola a piccole dosi in una cupa Taiwan contemporanea, le cui tematiche (stalking, relazioni tossiche, bisessualità, paranoia) lo rendono universalmente fruibile agli spettatori di tutto il mondo. Si tratta di un’opera strutturalmente piuttosto complessa, che innesca senza freni una moltitudine di personaggi e situazioni, ma che riesce, con successo, a non lasciare nulla in sospeso e a chiudere ogni cerchio narrativo. C’è addirittura una poetica (sì, poetica) scena di autoerotismo collettivo sulle note di Chopin, il cui Notturno op.9 no. 2 è il fil rouge che collega le anime dei personaggi. Wi Ding Ho, attraverso le scelte registiche e di fotografia, fa emergere una costante freddezza, che risalta ancor più prepotentemente la complessiva alienazione e il distaccamento sociale intrinseco della pellicola. Terrorizers non lascia via di scampo, logora nel profondo e alimenta un incessante senso di solitudine. La più inaspettata sorpresa di questa edizione della Festa del Cinema. ★★★☆☆

C’mon C’mon, di Mike Mills

Roberta: Johnny – il sempre intenso Joaquin Phoenix – è un giornalista radiofonico, impegnato in un progetto che lo porta a spostarsi attraverso gli Stati Uniti per intervistare i bambini di tutto il Paese su ciò che pensano del mondo e del futuro. È proprio un bambino a irrompere, d’improvviso, all’interno della sua esistenza solitaria: si tratta del nipote Jesse di 9 anni, affidatogli temporaneamente dalla sorella Viv, costretta a badare al marito in piena crisi psicotica. Tra il disilluso zio ed il mentalmente vivacissimo – forse un po’ troppo per la sua età – ragazzino, si crea un legame tenero ed inaspettato, che cambierà la vita ad entrambi, nel corso di un indimenticabile viaggio tra Los Angeles, New York e New Orleans.
Il bianco e nero della pellicola conferisce alla storia, già dolce, un’ulteriore connotazione romantica e sembra, al contempo, voler suggerire l’universalità e l’atemporalità dei temi portati sullo schermo. Ci troviamo di fronte ad un film ricco di citazioni e intensamente dialogato, quasi filosofico, negli scambi fra i suoi protagonisti, inframmezzati alle riflessioni dei ragazzini intervistati nel corso del programma radiofonico. Si tratta di una filosofia alla portata di tutti, adulti e bambini, che si interroga sulla vita, sull’amore, sulla morte e sul concetto di umanità. Il valore di Joaquin Phoenix risulta perfettamente controbilanciato dall’apporto recitativo del piccolo Woody Norman, grande sorpresa di questo film. Per citare una delle battute principali, che dà anche il titolo al lungometaraggio, «Non ci resta che tifare», magari agli Oscar! ★★★★☆

Riccardo: Due realtà che si intersecano: quella familiare e quella socio-culturale, entrambe accumunate da forti contrasti. Da una parte una famiglia allo sfascio, con un padre in cura psichiatrica, una moderna madre pensatrice ed uno zio “vagabondo” che registra suoni e testimonianze audio in giro per il paese. Dall’altra, un’America in bianco e nero che chiede a gran voce integrazione ed uguaglianza, ponendo l’attenzione sulle nuove generazioni. Questa sfrenata ricerca della realtà sfocia, però, nell’irrealtà a causa di una scrittura troppo incentrata sull’intellettualismo citazionale per risultare credibile al 100%: insomma, quale bambino di 9 anni annovera nel proprio vocabolario parole come “resilienza”, ascolta Wagner di prima mattina o riesce a prendere una posizione consapevole sull’aborto? Tralasciando il passo più lungo della gamba da parte della sceneggiatura, le prove attoriali sono veramente di altissimo livello. Date un Oscar a Woody Norman, che riesce a tenere testa a un mostro sacro come Joaquin Phoenix e non supera nemmeno i 12 anni di età. Mike Mills (Beginners, 20th Century Woman) integra perfettamente il dramma individuale di una famiglia nel dramma universale della società, mancando, però, di cuore e, soprattutto, di sincerità. Tutto troppo meccanico e pensato. ★★★☆☆

Belfast, di Kenneth Branagh

Roberta: Il film più intimo e personale di Kenneth Branagh, che ci riporta alla sua infanzia nell’Irlanda del Nord. La guerra civile fra protestanti e cattolici nella città di Belfast sul finire degli anni ’60 viene raccontata attraverso gli occhi di Buddy, 9 anni, alterego del regista, e filtrata attraverso la sua amorevole famiglia, che sarà posta di fronte alla difficile scelta se attendere che gli scontri finiscano o iniziare una nuova vita altrove. Dal colore dei titoli di testa, che ci propongono una panoramica della città al giorno d’oggi, si passa al bianco e nero della narrazione, che ci proietta nel passato, interrotto solamente dai colori della televisione (Star Trek, Mezzogiorno di fuoco, L’uomo che uccise Liberty Valance), dello schermo cinematografico (Un milione di anni fa, Citty Citty Bang Bang) e del palcoscenico (A Christmas Carol) nella magica esperienza di spettatore del giovanissimo protagonista, con un escamotage che ci restituisce immediatamente la fanciullesca fascinazione che tutti noi proviamo nei confronti delle storie. Il piccolo Buddy è sempre il punto di vista e di ascolto delle varie scene: anche quando non interviene attivamente, assiste o spia le discussioni dei genitori (Caitríona Balfe e Jamie Dornan) e dei nonni (Judi Dench e Ciarán Hinds), per i quali il lavoro di casting è stato veramente eccellente. Ciliegina sulla torta le musiche di Van Morrison, che ci calano ulteriormente nel periodo, in questa piccola “storia nella Storia”, dolce e intimista. ★★★★☆

Riccardo: Dolce come la carezza di una nonna. Non c’è altra maniera per descrivere Belfast, film-memoria sull’infanzia di Kenneth Branagh che va ad inserirsi in quel filone autobiografico che include già titoli come Amarcord di Fellini, Radio Days di Woody Allen e, più recentemente, Roma di Alfonso Cuarón. Ci si intenerisce per l’innocenza del protagonista (riuscirà a conquistare la sua fiamma a scuola?), ci si sgomenta per le ingiustizie del mondo (la morte, in primis), si combatte per i propri valori (singoli e collettivi), più genericamente si vive assieme ai personaggi. Ci sono pellicole di cui è difficile parlare, che trovano la propria forza nei piccoli gesti, negli sguardi, nei silenzi, nelle paure. Lasciatevi trasportare, allora, le parole qui servono a poco. ★★★★☆

Red Rocket, di Sean Baker

Riccardo: Il cinema “della periferia americana” di Sean Baker, dopo le contrapposizioni di Un Sogno Chiamato Florida, si sposta nei sobborghi texani, dove un attore di film per adulti è alla ricerca di un’opportunità di rilancio professionale e personale. Anche in questo caso si tratta di una società-limite, ben lontana dalla borghesia intellettuale newyorkese di C’mon C’mon, che non contempla il sogno americano, perché non ha nemmeno i mezzi per sognarlo. Emblematica la scena in cui uno dei personaggi si finge veterano di guerra per ricevere sconti e cibo gratis al centro commerciale. L’unica via di fuga del protagonista (un irresistibile – e fighissimo – Simon Rex) viene individuata in una giovane commessa dai capelli rossi di un negozio di ciambelle, raffigurante il razzo esplosivo (da qui il red rocket del titolo?) che potrebbe condurlo verso nuovi orizzonti. La sceneggiatura oscilla tra il serio ed il faceto, con alcuni guizzi particolarmente riusciti e innumerevoli battute divertenti, ma manca un po’ di risolutezza nel finale, che risulta dubbioso. O forse, Baker vuole sapientemente che lo spettatore si ponga certe domande, che si chieda qual è il senso di tutto quello che ha appena visto. Red Rocket è un tour de force di comicità, con recitazioni costantemente over the top, ma mai ridicole, un pizzico di kitsch e un affabile mood pop, come simboleggia il brano ricorrente della colonna sonora. ★★★☆☆

Queste erano le battute finali della Festa del Cinema di Roma 2021.
Ci auguriamo di poter vedere i film in concorso presto nelle sale. Voi quale attendete con maggiore ansia? Fatecelo sapere nei commenti!

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