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The French Dispatch: Wes Anderson a cavallo tra De Sica e Tati

Dopo la presentazione al Festival di Cannes 2021, esce nelle sale italiane The French Dispatch, la lettera d’amore di Wes Anderson al giornalismo del tempo che fu

Wes Anderson, da ormai diversi anni, si è affermato come uno dei registi autoriali più applauditi e amati dal pubblico mondiale e, al pari di maestri come Federico Fellini, ha creato un vero e proprio stile cinematografico di riferimento.

Decantato per la maniacale ricerca delle simmetrie, l’estetica dei colori e le rocambolesche avventure di curiose e bislacche caricature, vede la consacrazione definitiva nel 2014 quando il suo Grand Budapest Hotel ottiene 4 Oscar a fronte di 9 nomination.

Figura cult anche in Italia, viene celebrato dalla band indie I Cani con un brano a lui dedicato: “Vorrei vivere in un film di Wes Anderson / Vederti in rallenty quando scendi dal treno“.

La sua nuova fatica The French Dispatch, lasciata a riposare per quasi due anni causa chiusura forzata dei cinema, è l’ennesimo carnevale di immagini e personaggi che diverte ed incanta.

Trama e cast di The French Dispatch

Alla morte del direttore, i giornalisti di una redazione mettono insieme un memoriale che riporta le migliori storie pubblicate dal giornale nel corso degli anni: l’ascesa al successo di un artista pazzo condannato all’ergastolo, una rivolta studentesca paradossale ed un misterioso rapimento risolto da un cuoco. Si tratta, quindi, di un film ad episodi sotto mentite spoglie.

Bill Murray, Owen Wilson, Timothée Chalamet, Frances McDormand, Tilda Swinton e Benicio Del Toro sono alcuni dei protagonisti della pellicola. Basterebbe questo elenco di star per capire l’influenza e la potenza del regista.

Come suo solito, gli attori diventano dei pupazzetti da manipolare e stravolgere. Benicio Del Toro, in particolare, spicca su tutti, regalando una performance estremamente comica e stravagante. Ad accompagnarlo una sontuosa e magnetica Léa Seydoux.

Un po’ sottotono, invece, gli attori-feticcio del regista come Murray, Wilson ed Edward Norton, a cui vengono riservate parti brevi e poco ispirate. Ma la loro presenza è necessaria per farci sentire a casa, come quando al cenone natalizio sarebbe insolito non ritrovare gli zii mattacchioni in visita.

Parte del cast di The French Dispatch

Wes Anderson come De Sica

Come confessato dal regista durante la conferenza stampa del film, The French Dispatch recupera la sua forma antologica dal cinema italiano degli anni ’50, in particolare da L’Oro Di Napoli di Vittorio De Sica.

In quel periodo, la struttura ad episodi risulta particolarmente popolare, in quanto ha la possibilità di dipanare più trame in un tempo limitato e di presentare una moltitudine di star che, in un film tradizionale, non sarebbe possibile coinvolgere.

La brevità del racconto è funzionale all’incisività di un ritratto, di una critica di costume, o di un’idea drammatica.

La cornice narrativa che cuce assieme le vignette può essere rappresentata da un’unità tematica (le varie sfaccettature di Napoli nel già citato film di De Sica, appunto), dagli attori stessi (Mastroianni e la Loren costanti protagonisti di tutti gli episodi di Ieri Oggi Domani) o da un sentimento celato nello spirito stesso dell’opera, come in Ro.Go.Pa.G., in cui non esiste un leit motiv propriamente esplicitato.

Una matrioska narrativa

Il file rouge di The French Dispatch viene ricondotto al personaggio di Bill Murray (qui alla nona collaborazione con Anderson!), un editore che controlla meticolosamente tutti gli elaborati dei suoi redattori.

Gli episodi prendono il via nel momento in cui egli comincia a leggerli: lo spettatore viene quindi catapultato dentro l’articolo e le parole prendono forma sullo schermo.

A questo punto, però, il punto di vista della narrazione viene spezzettato e, come all’interno di una matrioska, si aprono nuove angolazioni che si affiancano alla voce principale. Un procedimento simile venne utilizzato da Orson Welles in Quarto Potere, dove la figura di Kane viene fotografa da un insieme di prospettive alternative che si inseriscono nell’esposizione primaria.

Si tratta di una scelta che dona ritmo e verve, ma che alla lunga risente di una linearità espositiva e che, in certi momenti, spaesa lo spettatore.

Le sceneggiature di Wes Anderson non contengono (quasi) mai momenti di silenzio o di pausa, ma in The French Dispatch questo horror vacui è esageratamente accentuato e ridondante.

Poster a cartone di The French Dispatch

Ode à la France

La peculiarità di The French Dispatch è che si tratta di un film sul giornalismo senza parlare di giornalismo. L’ufficio di redazione è soltanto una cornice che serve da introduzione a tre episodi totalmente scollegati dalla vicenda principale.

L’opera è, piuttosto, la volontà di Wes Anderson di realizzare un film-omaggio alla Francia.

In particolare, è evidente l’amore per Jacques Tati. L’estroso comico francese viene ricordato non solo per le sue eccentriche movenze da mimo, ma anche per la creazione di un bizzarro universo architettonico, oggi molto vicino alla sensibilità estetica di Anderson.

Similitudini tra The French Dispatch e Jacques Tati
A sinistra una scena di Mio Zio di Tati, a destra un’immagine tratta da The French Dispatch

La sequenza iniziale è inconfutabilmente un grande richiamo a Mio Zio, in cui la struttura del palazzo calca quasi perfettamente quella della pellicola francese del 1968.

Per tutta l’introduzione, Wes Anderson si diverte a fare l’occhiolino a Tati: i viali alberati, i negozi, le insegne, gli abiti, le biciclette. Il personaggio di Owen Wilson, nonostante sia ufficialmente ispirato a Joseph Mitchell, un autore del New Yorker, sembra la reincarnazione di Monsiuer Hulot.

A sinistra Tati nel ruolo di Monsieur Hulout, a destra Owen Wilson nei panni di Herbsaint Sazerac

Fanno capolinea omaggi a Jacques Demy e alla sua estetica sfarzosa di Les Parapluies De Cherbourg, ma anche a Jean Renoir e a quella calca di personaggi in bianco e nero che si alternano davanti alla macchina da presa ne Le Regole Del Gioco.

Nel secondo episodio sono recuperabili diversi momenti in stile Godard, in particolare i dialoghi a letto che richiamano quelli leggendari di Fino All’Ultimo Respiro, il film spartiacque del 1960 della Nouvelle Vague.

Autoreferenzialità all’ennesima potenza

The French Dispatch possiede, tuttavia, un grosso problema: un abuso di autoreferenzialità. Wes Anderson utilizza gli stessi trucchetti stilistici da tempo, senza mai uscire dagli schemi che egli stesso ha creato e qui ricicla senza limitazione alcuna.

Gli inseguimenti fumettistici a-la Benny Hill erano già stati ampiamente sfruttati ne Le Avventure Acquatiche Di Steve Zissou e in Grand Budapest Hotel, così come il cambio di aspect ratio e l’alternanza del colore con il bianco e nero. I titoli e la suddivisione in capitoletti hanno definito I Tenenbaum, mentre gli spezzoni animati potrebbero essere scene tagliate direttamente da Fantastic Mr. Fox o L’Isola Dei Cani.

Insomma, niente di nuovo, tutto ampiamente prevedibile. Non che si tratti di un male, sia chiaro, ma ci piacerebbe vedere il guizzo artistico di Wes Anderson tentare l’esplorazione di nuovi orizzonti, elevandosi maggiormente, invece di continuare a copiare, seppur gradevolmente, le sue pellicole precedenti.

The French Dispatch farà gridare all’ennesimo capolavoro i fan accaniti del regista, divertirà lo spettatore casuale, ma deluderà in parte l’occhio dei più critici. La scrittura, oltre ad essere strabordante, è molto altalenante (il primo episodio senza dubbio il migliore) e manca di un appiglio consolidato, così come il finale sembra soltanto abbozzato ed inconcludente.

Ma noi, caro Wes, facciamo sempre il tifo per te. Sappiamo che stai già girando il tuo prossimo film in Spagna e non vediamo l’ora di riabbracciarti, con l’augurio di ritrovare i punti saldi del tuo cinema in veste completamente rinnovata.

Wes Anderson all'anteprima di The French Dispatch
Riccardo Armonti
Riccardo Armonti
Potete trovarmi dentro un film di Charlie Chaplin, nei dischi dei Beatles o tra le pagine di Herman Hesse. Ho vissuto in tre continenti, ma non ho ancora assaggiato un ragù che possa competere con quello della mamma.

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