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È Stata la Mano di Dio: il diario aperto di Sorrentino

Nove anni dopo il travolgente successo de La Grande Bellezza, Paolo Sorrentino guadagna una seconda nomination agli Oscar 2022 nella categoria Film Internazionale con È Stata la Mano di Dio, la sua opera più intima, cruda e sofferta.

Il regista, vincitore del Leone d’argento a Venezia 78, riporta in vita i genitori, i profumi e i colori della sua Napoli, le incertezze dell’adolescenza e l’esaltazione di un fenomeno calcistico mai più ripresentatosi in Italia: Diego Armando Maradona.

Il lessico familiare di È Stata la Mano di Dio

Da sempre la forma del racconto-memoria affascina gli autori di tutto il mondo. Per quanto sia folgorante fantasticare, creare storie e immaginare mondi alternativi, si ritorna sempre al vissuto personale. Nel revival amarcord che sta scuotendo il cinema contemporaneo, trainato da titoli come Roma di Alfonso Cuarón o Belfast di Kenneth Branagh, si inserisce anche l’ultima fatica del nostrano Paolo Sorrentino.

Napoli, anni ’80. Fabietto Schisa (il semi-debuttante Filippo Scotti che interpreta un giovane Sorrentino) trascorre la sua adolescenza circondato da una famiglia frizzante e calorosa, le cui peculiarità e manchevolezze potrebbero rappresentare il classico nucleo all’italiana. La prima parte del film non è altro che un maestoso dipinto familiare, infarcito di sguardi, segnali in codice, giochi di complicità e affetto.

Non a caso, la scena più potente dell’intera pellicola vede la famiglia Schisa al completo riunita per un pranzo all’ombra di un imponente fico. È un momento universale, in quanto ognuno di noi potrebbe riconoscere un proprio parente tra quella moltitudine di personaggi: si tratta della rappresentazione-tipo della famiglia italiana.

Il grande hot topic che domina le conversazioni casalinghe è quello dell’apparente arrivo di Maradona al Napoli e Fabietto, assieme a suo fratello Marchino, ne diventa talmente ossessionato da riconoscere l’atleta alla guida di un’auto tra le strade di Napoli. Sorrentino riesce perfettamente a rendere l’immaginario di icona culturale anche per chi non ha vissuto quell’epoca.

Pare che Maradona fosse veramente una divinità: oltre al pibe de oro, possedeva anche la mano di Dio. Si fa riferimento, nello specifico, alla rete da lui segnata, di mano appunto, nei quarti di finale del Mondiale 1986. In questo caso il titolo È Stata la Mano di Dio non fa, però, riferimento soltanto a questo singolare episodio, ma possiede una valenza più spirituale, perché, all’insaputa dei più, è stato proprio Maradona a salvare la vita a Paolo Sorrentino.

Disponibile su Netflix, il film scaturisce, infatti, dalla volontà di raccontare, e in qualche modo di esorcizzare, la tragica morte dei genitori del regista.

Saverio (Toni Servillo) e Maria (Teresa Saponangelo) hanno intenzione di recarsi nella villetta a Roccaraso, fuori Napoli, per il weekend, ma Fabietto ha un appuntamento troppo importante a cui non può mancare: il Napoli di Maradona. Durante quel soggiorno a Roccaraso, i genitori di Sorrentino perdono la vita a causa di una perdita di monossido di carbonio.

A sinistra: Filippo Scotti nelle vesti di Fabietto Schisa. A destra: Paolo Sorrentino nei primi anni ’90.

Il secondo atto che segue è totalmente opposto alla lietezza e alla spensieratezza del primo. Oltre a convivere con l’assenza dei genitori, Fabietto si trova in un punto cruciale della vita, in cui l’idea di un futuro post liceo si fa sempre più attanagliante e confusa.

Quello che salverà il protagonista è l’immaginazione e la sua necessità di raccontare storie, unica via di salvezza per fuggire da una realtà deludente. Affascinato dalla figura dirompente del regista Antonio Capuano, il giovane Schisa lo inseguirà per cercare di apprendere da lui come diventare un regista cinematografico.

Entrano qui in campo discussioni sulla realtà, la perseveranza e l’intimità emotiva (la battuta “Non ti disunire” è già cult), in cui Sorrentino romanza come ha cercato di rimettersi in piedi dopo il tragico evento.

Fellini Über Alles

L’influenza estetica di Federico Fellini è sempre stata particolarmente marcata nel cinema di Sorrentino. Non a caso, molti considerano La Grande Bellezza una sorta di upgrade del nuovo millennio de La Dolce Vita.

I manierismi tecnici, gli attori di seconda fila costantemente over the top e i sofisticati movimenti di macchina sono soltanto alcune delle caratteristiche più eclatanti ereditate, come sapientemente evidenziato nel seguente videoessay.

È Stata la Mano di Dio, a differenza dei lavori precedenti di Sorrentino, schiude calore felliniano non soltanto nelle immagini, ma nell’animo stesso della pellicola. Il tributo più esplicito è senza dubbio la sequenza del provino di Marchino al cospetto del cineasta riminese.

Il fratello di Fabietto tenta la via del successo attraverso il cinema e si inserisce nel bizzarro carnevale di personaggi e macchiette che sperano di far colpo su Fellini. Sono risaputi gli stravaganti ed imprevedibili casting che precedevano la realizzazione di un film di Fellini, la cui spasmodica ricerca di facce bislacche ed inusuali poteva perdurare anche per mesi interi.

Marchino viene scartato lapidariamente (ha un volto troppo comune), ma sente pronunciare da Fellini una frase che, soprattutto per Fabietto, diventerà un mantra e fonte di ispirazione: La realtà è scadente“. Affermazione non lontana da ciò che avrebbe potuto effettivamente enunciare, dato che già nella sceneggiatura de Lo Sceicco Bianco del 1952 scriveva: “La vera vita è quella del sogno, ma a volte il sogno è un baratro fatale”.

Nell’intera sequenza del provino, il Maestro non viene mai mostrato, ma soltanto evocato attraverso quella sua sottile voce dalla marcata cadenza romagnola. Si tratta di un guizzo particolarmente centrato, che denota una personalità carismatica e perfettamente riconoscibile, anche senza essere manifestata in camera.

Più velato, nonchè innegabile, è il rimando a I Vitelloni nel finale. Nel capolavoro di Fellini del 1953, Moraldo è l’unico, tra il suo gruppo di amici, ad avere il coraggio di lasciare il paese partendo alla volta di Roma. Senza avvisare nessuno, così come Fabietto, Moraldo prende un treno che lo porterà nella capitale, alla ricerca di una tanto agonizzata autorealizzazione.

Il personaggio di Moraldo simboleggia il Fellini di qualche anno prima, il quale abbandonò Rimini per cercare di sfondare nella Città Eterna; singolare come la battuta finale pronunciata dal personaggio di Moraldo (“Addio, Guido!”) sia doppiata da Fellini stesso, come se avesse voluto far rivivere in pellicola la sensazioni provate al momento della partenza.

Fabietto, allo stesso modo di Moraldo, è un giovane Sorrentino, il quale, emotivamente distrutto dalla morte dei genitori, si spostò a Roma con la speranza di lasciare lontano anche i suoi tragici vissuti.

Sorrentino a nudo

Questa operazione nostalgica e sofferente ha portato Sorrentino a svestirti stilisticamente, a renderlo copiosamente più snello e fluido, a denudarlo.

Dimenticate le ricche scene barocche infarcite di maschere, scenette e arzigogoli: qui ci troviamo davanti alla paura, all’orrore dell’ignoto, al silenzio. Perché è il silenzio che fa veramente rumore in È Stata la Mano di Dio.

Sorrentino è un grande appassionato di musica (durante la premiazione agli Oscar del 2013 ringraziò per l’ispirazione anche la band statunitense Talking Heads) e siamo abituati ad un utilizzo massiccio della colonna sonora nelle sue opere.

Fabietto vive costantemente con un paio di cuffie al collo, come se fossero un’estensione naturale del suo corpo, ma non viene fatto cenno a cosa stia ascoltando. Lo spettatore non sente mai quale canzone riproduce il walk-man di Fabietto, perché è uno sfogo così personale ed intimo che soltanto lui può percepirlo.

La musica è quasi totalmente assente per tutta la durata della pellicola e compare prepotentemente nel momento della liberazione finale: durante il viaggio in treno verso Roma. Ed è qui che, con grande prestigio, Sorrentino fa librare in alto lo spirito dei genitori di Fabietto, il suo passato e la sua voglia di rinascita.

Napul è, il celebre brano di Pino Daniele, racchiude in sé tutta la napoletanità della città partenopea, compresi i pregi (Napule è mille culure), i difetti (Napule è mille paure) e le meraviglie (Napule è ardore e’ mare).

Il cinema della giovinezza

Sorrentino ha impiegato 20 anni per trovare il coraggio e la forza di realizzare questo film ma, in fin dei conti, gran parte del suo cinema è già un cinema della giovinezza che fa capolinea sul passato.

A partire da quell’emblematico titolo Youth, in cui sono contrapposte generazioni differenti, proseguendo per La Grande Bellezza, che è basato totalmente sul ricordo inafferrabile di un amore giovanile, senza dimenticarsi di This Must Be The Place, in cui il passato prende possesso del presente.

Nonostante la ricerca, il lavoro all’estero (il suo prossimo progetto Mob Girl sarà una produzione americana e, tra le possibili attrici, si fa il nome di Jennifer Lawrence) e la continua crescita, Sorrentino continua imperterrito a guardare al suo trascorso e ai suoi demoni.

C’è una citazione de La Grande Bellezza che, forse, racchiude totalmente il seme della sua opera:

«Perché Lei mangia solo radici?»

«Perché le radici sono importanti.»

Riccardo Armonti
Riccardo Armonti
Potete trovarmi dentro un film di Charlie Chaplin, nei dischi dei Beatles o tra le pagine di Herman Hesse. Ho vissuto in tre continenti, ma non ho ancora assaggiato un ragù che possa competere con quello della mamma.

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